Self-confidence & performance management, i pilastri di una buona gestione

In questa pillola manageriale proveremo a sintetizzare un’idea derivante dal Forum Autunno 2023 di Contract Manager – Incontriamo l’eccellenza del Management in Italia, sul tema “Il leader 4.0 e la creazione di un forte spirito di squadra: il Caso Gruppo SAPIO”. Il relatore, Mario Paterlini, CEO del Gruppo SAPIO ha fatto un’affermazione di rilievo:
“La cultura manageriale Anglosassone ha due principi molto solidi che ne determinano il rilievo e il successo globale come scuola di management: Self-confidence e Performance management”.

Self-confidence

Il vocabolario Inglese Merriam Webster definisce la self-confidence così: “Confidence in oneself and in one’s powers and abilities”. Ovvero fiducia in sé stessi. Proprio così, ovvio e semplice. Se provassimo a scrivere un’equazione sulla self-confidence, un moltiplicatore sarebbe senz’altro l’esperienza. Significa dunque che un giovane neolaureato al primo internship non può essere self-confident? Tutt’altro: vogliamo giovani proattivi, veloci, che chiedono, che si espongono, che rischiano, che sbagliano per imparare. Self confidence infatti vuol dire rischiare, provare, “fare”. Quel famoso “execution” in inglese.
“E se sbaglio?” Il nemico numero uno nel processo di costruzione di self-confidence è la paura di sbagliare. Personalmente, credo che nella cultura latina questo sia ancor più vero. È umano e comprensibile ma è soprattutto l’ambizione ad aiutarci a vincere la paura. Comunque vada, prima o poi sbaglieremo. Capiterà sicuramente. Gli Americani dicono “meglio rischiare una brutta figura ma dire qualcosa piuttosto che stare zitti”.

Quando capita di sbagliare va ammesso prima di tutto a noi stessi e immediatamente dopo agli altri. Ammettere di aver sbagliato è un segno di forza, un elemento essenziale della self-confidence: alla fine, sbagliare può diventare una vera opportunità. Ammettere di aver sbagliato prima che ce lo dicano gli altri e proporre subito contromisure, avere un piano B pronto, è essenziale ma ammettere che il piano A non funziona prima degli altri lo è ancora di più. Questa in effetti è la filosofia delle start-up: partire con un progetto, un’idea ma a differenza delle grandi multinazionali non si ha un piano triennale (o quinquennale) dettagliato, chi fa cosa, quando, come. C’è senz’altro una direzione, un obiettivo, spesso un sogno. Ogni giorno si impara, ci si corregge. Self confidence richiede un altro elemento essenziale, un termine oggi molto di moda: resilienza, ovvero la capacità di affrontare i cambiamenti e gli stress senza cedere.

Performance

Non vi è dubbio che il termine “performance” sia uno dei capisaldi di ogni scuola di management in ogni paese e cultura, ma sicuramente nel mondo anglosassone è il capitolo 1 della Bibbia di management. In genere tutti vogliamo sapere cosa “il capo” si aspetta da noi, il nostro obiettivo. È sempre chiaro? La risposta istintiva e generica è si. Ma ne siamo sicuri? Le funzioni di service, ad esempio di back-office, di credit management, di human resources hanno un obiettivo chiaro? Un numero? Nelle aziende Anglosassoni, permettetemi gli errori di generalizzazione, c’è sempre un numero per chiunque. La rivoluzione Industriale del 1780 che abbiamo studiato in storia economica parlava di lavoro a cottimo, negli anni e secoli successivi giustamente incriminato. Ma quel concetto, ovviamente aggiornato secondo i corretti principi moderni, nel mondo anglosassone, è ancora vivo. Chi vende ha un obiettivo di fatturato. Chi acquista un obiettivo di profitto e di stock management. Un CFO ha un obiettivo di cost management e di profitto. Anche chi fa inserimento ordini deve raggiungere degli obiettivi, dei KPI; e così tutti nel mondo anglosassone, dal magazziniere al CEO. Per un project manager che deve completare l’implementazione di una nuova piattaforma di gestione quel numero è una data, quel numero è la Bibbia, scolpito nel cervello; ad ogni meeting con il capo si parte da quel numero, l’obiettivo, che viene misurato con la realtà: dove siamo oggi? E bisogna essere pronti a spiegare il motivo del gap negativo, così come di quello positivo. Quel numero guida ogni azione, ogni giorno. Che si parli con un collega o con un cliente, alla fine lo si fa per quel numero. La Performance si misura a raggiungimento di obiettivi e non a ore di lavoro come a volte succede.

Nella cultura anglosassone c’è anche il numero “collettivo”, di solito il fatturato dell’azienda che viene aggiornato e comunicato quotidianamente o in tempo reale, spesso con screen appesi ovunque negli uffici. Il messaggio è: ognuno di noi può e deve contribuire a raggiungere quel numero. Il successo è di tutti e ognuno ha un obiettivo personale che è un componente, un pezzo di quell’obiettivo comune.

Il performance management è il motore di questa cultura, ovvero come assicurarsi che quel numero, quell’obiettivo personale sia chiaro per ognuno di noi? A inizio anno ogni manager definisce obiettivi personali, li condivide in riunioni faccia a faccia, li spiega per ricevere un formale ok dal suo riporto. Nel mondo anglosassone quasi tutti hanno parti variabili, incentivi, legati a quell’obiettivo personale. Trimestralmente si fanno meeting formali di aggiornamento e a fine anno si chiude con valutazione finale. In quel meeting si parla anche di sviluppo personale, ambizioni future e percorso di crescita in cui insieme, azienda e dipendente, accordano un percorso, l’azienda mette a disposizione strumenti come personal coaching, training specifici dove il dipendente ha l’opportunità di dimostrare le proprie capacità ed ambizione.
E le nostre persone hanno un numero?

 

Alessandro Stanzani
Senior Manager
Contract Manager s.r.l.